Alzare l’asticella della consuetudine progettuale
Febbraio 2024 | Ancora studenti al Politecnico di Milano, nel 2013 Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino e Claudia Mainardi, nati fra il 1987 e il 1989, fondano a Milano il “collettivo di design e ricerca” Fosbury Architecture.
“Eravamo molto scettici sulla formazione che stavamo ricevendo e preoccupati per il mercato del lavoro che ci attendeva. Abbiamo scelto la forma del collettivo come piattaforma collaborativa per sviluppare progetti e ricerche autonome. Col passare del tempo il gruppo si è evoluto in uno studio e oggi – dopo alcune defezioni e molte esperienze professionali all’estero – siamo in cinque”.
Il nome rimanda la memoria a Dick Fosbury, con il suo innovativo modo di scavalcare l’asticella di schiena. Lo stesso modo, non convenzionale, in cui il collettivo affronta il progetto: dai cortometraggi al restauro, fino alla curatela di libri e installazioni, per Fosbury Architecture l’architettura è una “pratica di ricerca” dove la loro attenzione si focalizza al processo, al lavoro collettivo e collaborativo, che supera l’idea dell’architetto-autoreferenziale.
Come nasce l’analogia del vostro lavoro con le imprese del grande campione di salto in alto?
“La nostra non è una produzione esattamente ‘lineare’ e ognuno di noi ha coltivato riferimenti, competenze, interessi e a volte vere e proprie ossessioni individuali. Cerchiamo in ogni progetto di ascoltarci molto e includere sempre tutti i punti di vista. L’unico mentore che abbiamo è Richard Douglas Fosbury, al quale dobbiamo il nostro nome, e la cui storia rimane per noi fonte di ispirazione quotidiana. Nel 1968 all’età di 21 anni Dick, atleta fino ad allora praticamente sconosciuto, vince la medaglia d’oro nel salto in alto ai giochi olimpici di Città del Messico cambiando i paradigmi della sua disciplina. Mentre tutti ancora si cimentavano nel salto ventrale, lui supera l’asticella dandogli le spalle: un gesto tanto poetico quanto basato sullo studio attento delle regole del gioco e dei suoi limiti fisici. Una potente metafora per il nostro lavoro, un punto di vista ‘obliquo’ che cerchiamo di applicare a tutto quello che facciamo”.
Il vostro Padiglione Italia “Spaziale” ha avuto l’intento di scatenare processi, come avete dichiarato, “azioni pioniere relative a un orizzonte temporale che si sono estese oltre la durata della Biennale Architettura 2023”. Sono stati infatti attivati 9 interventi site-specific in altrettanti luoghi selezionati in tutto il territorio italiano, i cui risultati sono stati esposti a Venezia. Com’è andata questa importante esperienza?
“Abbiamo interpretato l’incarico di curatori del Padiglione Italia come occasione per dare spazio a una nuova generazione di progettisti e per promuovere progetti concreti diffusi su tutto il territorio italiano. È stata un’esperienza tanto incredibile quanto estenuante, che ci ha visto tutti e cinque coinvolti a tempo pieno per più di un anno, insieme agli assistenti curatori Lorenzo Cellini e Valeria Cesti. Grazie al costante supporto della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, siamo riusciti a finanziare direttamente i progetti locali con il budget del Padiglione ed è stata una delle tante novità di quest’anno. L’obiettivo era quello di trasformare la spesa in investimento e superare l’orizzonte semestrale della Biennale per realizzare qualcosa che rimanesse dopo la chiusura della mostra. Erano anni che volevamo lavorare con le persone che abbiamo coinvolto, tutti professionisti che stimiamo, e la cosa più bella è che tutti hanno accettato la sfida quando li abbiamo contattati per prendere parte a “Spaziale” già dalla fase di gara.
I progetti locali sono stati attivati nei mesi precedenti all’inaugurazione della mostra e sono il frutto di collaborazioni con incubatori locali che hanno contribuito al radicamento delle iniziative nei territori. Oggi sono tutti realtà, sebbene siano interventi eterogenei. Alcune sono installazioni permanenti; altri dispositivi mobili o itineranti; altre ancora iniziative programmaticamente effimere, utili a sensibilizzare le comunità locali ed il dibattito in generale. Fortunatamente non si sono verificati errori eclatanti, ma il rischio costante è stato quello che i progetti – realizzati in tempi stretti – non attecchissero e fossero percepiti come calati dall’alto. È ancora presto per tirare le somme dell’impatto di queste ‘azioni pioniere’, ma ci siamo ripromessi di monitorare le attività in futuro e anche voi potete giudicarle, ad esempio andando a visitare il parco dell’Uccellaccio a Ripa Teatina (CH) o il nuovo boulder dell’Associazione Sgrafa Masegni a Marghera (VE)”.
Qual è stato il vostro primo progetto che vi ha visto coinvolti come collettivo?
“La prima vera ‘commessa’ risale al 2015 grazie alla vittoria dell’Europan 13 di Leeuwarden, una deliziosa cittadina dispersa nel nord dell’Olanda che nel 2018 sarebbe diventata Capitale della cultura europea. Il progetto prevedeva di aumentare l’offerta ricettiva urbana senza costruire nessun nuovo edificio, utilizzando i numerosissimi piani terra abbandonati che avevamo mappato durante il sopralluogo. Una proposta semplice, ma ritenuta efficace dalla commissione giudicante e dalla fondazione “Abe Bonnema” che promuoveva il premio e che ci ha incaricato di approfondire il progetto. Nonostante alla fine non si sia concretizzato nulla, si è rivelata un’ottima palestra per gli anni a venire, oltre ad averci dato i fondi per prendere in affitto il nostro primo ufficio”.
Avete lavorato a un progetto curioso, la mappatura completa delle opere pubbliche italiane incompiute – un catalogo di circa 700 opere pubblicato nel 2018 per Humboldt Books. A cosa vi è servito?
“Incompiuto è una ricerca che seguiamo da molti anni e per la quale ringrazieremo sempre il collettivo artistico Alterazioni Video, capace di traghettare un fenomeno peculiare e autoctono italiano dal piano della denuncia scandalistica a quello culturale. Lavorare alla prima mappatura completa delle opere pubbliche incompiute ci ha permesso di percorrere un’inedita geografia del Bel Paese e confrontarci con la sfida apparentemente impossibile di ridare significato a strutture e infrastrutture abbandonate, spesso indesiderate e a volte completamente inutili. Quelli che molti definiscono Ecomostri per noi concorrono a definire il più importante stile architettonico dal Secondo Dopoguerra a oggi in Italia e ne siamo follemente innamorati”.
La vostra pratica spazia dal progetto dello spazio pubblico, agli interni, fino all’exhibition design. Fosbury è uno studio d’architettura che sviluppa strategie urbane, riuso di edifici esistenti, installazioni temporanee, design di mostre, progetti editoriali, attività curatoriali e programmi didattici. Ci raccontate di alcune realizzazioni significative della vostra esperienza progettuale che si muove costantemente tra diverse scale?
“Un progetto legato al restauro è il Labirinto storico di Villa Arconati, esempio meraviglioso di barocchetto lombardo, dove abbiamo lavorato in collaborazione con il festival musicale Terraforma. A partire dall’idea di riqualificare il giardino come parco architettonico e di seguire le tracce fornite dal progetto originale di Marc’Antonio Dal Re, si è deciso di ripristinare il labirinto com’era e dov’era. Il labirinto, a pianta circolare, ha un diametro di 36 metri, per un totale di circa 1000 metri quadrati, ed è organizzato su quattro assi e cinque ordini concentrici. Per necessità economiche, logistiche ed ecologiche, il labirinto è stato concepito per essere costruito in 3 fasi. La scelta compositiva degli avanzamenti mirava a ottenere ogni anno un effetto architettonico compiuto e autocoerente: l’HortusConclusus, l’enfilade e il labirinto finale che quest’anno ha ospitato una performance “InvisibleGesture” di Nkisi e Jazmon a Voss, durante il festival”.
Urban Center Prato è un intervento di riuso e rifunzionalizzazione che abbiamo realizzato di uno degli spazi del Centro Pecci, interessati dall’ultimo ampliamento. Fortemente voluto dal Comune di Prato e dalla Fondazione per le Arti Contemporanee in Toscana, abbiamo immaginato l’Urban Center, un laboratorio permanente sulle trasformazioni urbane in corso. Attraverso il disegno di alcuni dispositivi minimi, UC è progettato come piattaforma flessibile per accogliere: uno spazio per installazioni immersive, un teatro, un parco giochi per sensibilizzare alla sostenibilità, una vetrina per la città e molto altro. Per l’inaugurazione, Fosbury Architecture ha curato la prima mostra temporanea “Osservatorio Prato 2050”, dedicata ai progetti attivi nella città di Prato e alle reti locali e internazionali che ciascuno di essi attiva.
Characters, infine, è sia una mostra che un allestimento, entrambi pensati a partire da un’indagine sul domestico che portiamo avanti dal 2017. La ricerca raccoglie modelli alternativi di spazio interni che fungono da antidoto alla mercificazione della casa; spazi a metà tra l’architettura e l’arredamento, progettati per ospitare personaggi idiosincratici.
L’installazione è idea come un interno in scala 1:1, composto da una serie di volumi che interpretano le abitudini domestiche più convenzionali – come dormire, conversare, rilassarsi, ecc. Per l’occasione la galleria è concepita come un interno monomaterico rivestito di moquette, assunta come emblema della domesticità. La moquette è di seconda mano. Attraverso la collaborazione con Meta, un magazzino del riuso a Milano, abbiamo utilizzato una moquette di pelo porpora recuperata dalla sfilata di Prada F/W2021, pulita e venduta al kg, per ricoprire tutte le superfici esistenti e tutti i volumi costruiti da noi. Da questo processo altamente sostenibile emerge un ambiente immersivo unico, che consente una vasta gamma di occupazioni informali nello spazio espositivo e nel quale fantasticare sulla serie di cortometraggi e sui personaggi immaginari proiettati”.